Il fenomeno biologico di cui parliamo oggi si chiama Antibody-Dependent Enhancement (ADE) ed è una delle ragioni per cui un vaccino promettente può risultare inefficace, qualora non vengano sviluppati gli anticorpi “giusti”.
Questo fenomeno è stato scoperto nel 1977 da un virologo che studiava la malattia di Dengue e da allora è stato riconosciuto anche per altri virus, inclusi alcuni della famiglia dei coronavirus.
Il vaccino come metodo di protezione a lungo termine dalle malattie virali
La produzione di un vaccino è generalmente considerata la via più promettente per proteggere a lungo termine la popolazione mondiale dai virus.
L’obiettivo della vaccinazione è quello di proteggere le nostre cellule dall’invasione del virus. Mimando l’infezione, la vaccinazione induce la produzione duratura di anticorpi, cioè proteine specifiche del sistema immunitario che riconoscano il virus e coadiuvano la sua eliminazione. A differenza dell’infezione reale, in cui il sistema immunitario incontra il virus intero, nella vaccinazione la produzione di anticorpi viene indotta verso solamente alcune strutture “chiave” del virus, le quali sono state reputate determinanti per l’entrata nelle cellule. Una di queste è la famosa proteinaspike, una proteina k, come una chiave, apre le cellule all’entrata del virus.
La speranza è che il sistema immunitario della persona vaccinata produca alti livelli di anticorpi anti-spike che impediscano l’interazione e quindi l’invasione delle nostre cellule.
Non tutti gli anticorpi sono uguali: anticorpi neutralizzanti e non
Possiamo paragonare le proteine di superficie virali, come la proteina spike, a delle chiavi in grado di aprire la porta di accesso alle nostre cellule. Una volta iniettato il vaccino, il sistema immunitario del paziente produrrà una moltitudine di anticorpi contro la chiave, ma questi non saranno tutti uguali: ognuno di essi sarà specifico per una parte diversa della chiave. Alcuni si attaccheranno all’impugnatura, altri allo stelo e altri alla parte del pettine. Come potrete immaginare quindi, tutti gli anticorpi si attaccheranno, ma non tutti gli anticorpi prodotti saranno in grado di impedire alla chiave di entrare nella serratura. Solo gli anticorpi che si attaccano a zone strategiche come il pettine o alle zone vicino ad esso preverranno l’invasione della cellula. Questi anticorpi sono detti “neutralizzanti” perché appunto neutralizzano la capacità del virus di nuocere alle cellule umane, e quindi proteggono il paziente dalla malattia.
Lo scopo dei vaccini è proprio di indurre nell’individuo vaccinato il maggior numero di anticorpi neutralizzanti possibile. Ma che cosa succede se invece la vaccinazione non induce anticorpi neutralizzanti, ma solo anticorpi che si attaccano al virus senza impedire che entrino nelle cellule?
Si rischia che accada il fenomeno del Antibody-dependent Enhancement. Scopriamo di cosa si tratta.
Gli anticorpi potrebbero aiutare il virus a entrare nelle cellule
Uno dei principali meccanismi di eliminazione dei corpi estranei attuato dal sistema immunitario si avvale di particolari cellule immunitarie dette fagociti. Queste accorrono numerose nei siti di infezione e quando incontrano un virus segnalato dagli anticorpi come un pericolo, lo internalizzano per digerirlo. La distruzione del virus avviene all’interno di una sorta di “stomaco” cellulare, ma alcuni virus hanno sviluppato dei meccanismi per evitare di essere eliminati, e quindi una volta all’interno dei fagociti li invadono.
Abbiamo spiegato prima come l’obiettivo primario del vaccino sia quello di prevenire l’entrata del virus nelle cellule, specialmente quelle delle vie respiratorie. Tuttavia gli anticorpi in questo caso determinano l’effetto opposto. Quindi un virus decorato con degli anticorpi potrebbe essere paragonato ad un cavallo di troia per fagociti. Gli anticorpi che lo hanno riconosciuto perché venga eliminato dalle cellule in realtà lo aiutano ad entrare nelle cellule fagocitiche e invaderle. Il risultato è che il virus si replica nei fagociti e poi esce diffondendo l’infezione nelle cellule vicine.
ADE: Antibody-dependent Enhancement
Questo meccanismo è noto in biologia e viene definito ADE (dall’inglese Antibody-dependent Enhancement), traducibile come “intensificazione (dell’infezione) anticorpo-mediata”.
Se gli anticorpi indotti dalla vaccinazione sono neutralizzanti e proteggono le cellule respiratorie più sensibili, l’individuo è comunque protetto e l’effetto dell’invasione delle cellule immunitarie è marginale. Se invece gli anticorpi indotti non sono neutralizzanti, vuol dire che né le cellule respiratorie, né quelle del sistema immunitario sono protette.
Il fenomeno dell’ADE nei vaccini: il parere degli esperti
Non è ben chiaro quanto il fenomeno dell’ADE possa incidere realmente nella mancata o opposta risposta ai vaccini.
L’ADE nella malattia di Dengue
L’ADE è stata scoperta nel 1977 da un virologo che studiava la malattia di Dengue e da allora questo fenomeno è stato riconosciuto anche per altri virus, inclusi alcuni della famiglia dei Coronavirus. È bene però puntualizzare che in alcuni casi questo fenomeno si rinviene solamente in esperimenti di laboratorio e non in esperimenti su animali o infezioni di esseri umani, quindi per molti virus rimane il dubbio che l’ADE avvenga realmente.
L’ADE nei Coronavirus
Per quanto riguarda la famiglia dei Coronavirus, ovvero i “cugini” del SARS-CoV-2, esperimenti su gatti vaccinati con la proteina spike del virus della prima SARS hanno dimostrato che questi peggioravano, ma il risultato non si conferma nei macachi. I macachi non hanno dimostrato effetti collaterali nemmeno dopo la vaccinazione con il virus della MERS.
Il rischio che un vaccino per il COVID-19 determini questo effetto è ignoto. Al momento non sono presenti dati sufficienti o convincenti che associno l’ADE per SARS-CoV-2 all’uomo. Finora c’è stata solo un’osservazione dei fenomeni in laboratorio, ma gli esperti concordano nel dire che gli esperimenti condotti in una situazione artificiale possono non rispecchiare che cosa avviene all’interno di un organismo complesso.
Anche se si conducessero i primi studi clinici di vaccini anti COVID-19 su esseri umani e si riscontrasse un peggioramento dello stato dell’infezione dei soggetti vaccinati rispetto a quelli non vaccinati, sarebbe comunque difficile dare la colpa all’ADE. Infatti la risposta immunitaria è molto complicata e non si limita alla produzione di anticorpi, rendendo l’interpretazione degli effetti collaterali molto difficile.
L’ADE come elemento nella produzione di vaccini
Ricordiamo che generalmente occorrono 15-20 anni per produrre un vaccino sicuro ed efficace, proprio perchè bisogna tenere in considerazione elementi come l’ADE. Essi si evidenziano solo sul campo. Per questo ed altri motivi dei vaccini che all’inizio sembrano promettenti poi non superano i controlli nel tempo. È ben vero che i tempi si stanno gradualmente riducendo grazie allo sviluppo della tecnologia, tuttavia la biologia ha
tempi prestabiliti che spesso non è possibile accorciare.
Conclusioni: L’Antibody-dependent Enhancement è un pericolo da tenere in considerazione
Tutti concordano che l’Antibody-dependent Enhancement sia sicuramente un fenomeno da considerare durante i test dei nuovi vaccini. È uno dei tanti elementi che rendono la nostra conoscenza dei meccanismi del sistema immunitario e dei vaccini ancora parziale ed affascinante
Grazie alla Dottoressa Elena Boero dal sito med4 care
Dottor Citro👆
2° articolo che abbiamo scelto per voi, riguardo alla ricerca sull'Ade,che oggi con questo post abbiamo voluto approfondire, segue qui sotto 👇👇👇
Dottoressa Loretta Bolgan👆
I ricercatori impegnati nello sviluppo di vaccini per il nuovo coronavirus vogliono proteggere i pazienti senza però innescare un fenomeno immunologico che è noto da tempo e che in seguito alla vaccinazione potrebbe esacerbare la malattia invece di combatterla. Per questo sarà fondamentale mantenere alta l'attenzione durante tutte le fasi delle sperimentazioni
La pandemia da coronavirus ha fornito al mondo un rapido sguardo sulla complessità dell'immunologia. "Immunità di gregge" e "test sierologici" sono diventati termini familiari. Alla base di questi concetti ci sono gli anticorpi. Queste proteine immunitarie emergono tipicamente durante la seconda o terza settimana dopo un'infezione, legandosi agli invasori e impedendo loro di penetrare nelle cellule umane. Se gli anticorpi che prendono di mira un particolare virus compaiono in un campione di sangue, la loro presenza fornisce la conferma di una risposta immunitaria che può proteggere dalla reinfezione.
Far emergere gli anticorpi giusti per disarmare SARS-CoV-2, il virus responsabile dell'attuale pandemia, è l'obiettivo di decine di sviluppatori di vaccini, molti dei quali hanno già avviato trial su esseri umani a tempo di record. Ma gli esponenti della sanità pubblica e gli scienziati mettono in guardia dal muoversi troppo velocemente. In casi rari, questi sistemi di difesa immunitaria possono esacerbare la malattia piuttosto che difenderci da essa.
Nelle prime fasi di realizzazione del vaccino per COVID-19 questa possibilità non si è ancora verificata. Tuttavia, sulla base di ricerche relative a precedenti epidemie di coronavirus, i produttori di vaccini non considerano l'ostacolo come puramente teorico.
Tipicamente SARS-CoV-2 e il precedente coronavirus a esso imparentato SARS-CoV si fanno strada nelle cellule attraverso un sito di attracco: un recettore sulla superficie cellulare chiamato ACE2. I vaccini che forniscono la ricercata immunizzazione producono anticorpi "neutralizzanti" contro le proteine virali, bloccando l'ingresso del patogeno attraverso il portale ACE2.
Ma il solo fatto che un anticorpo possa impedire a un virus di entrare nelle cellule in un preparato da laboratorio non significa necessariamente che si comporterà nello stesso modo nell'organismo, dice Akiko Iwasaki, immunologa della Yale University. Negli scenari che descrive in un recente commento su “Nature Reviews Immunology”, gli anticorpi possono occasionalmente aiutare un virus a invadere e contrastare le cellule immunitarie che normalmente fagociterebbero l'agente patogeno, permettendo di eliminarlo.
Se alcuni degli anticorpi prodotti non si legano abbastanza bene al virus – o non sono presenti nella giusta concentrazione – possono aggrapparsi a esso ed esacerbare la malattia tramite un processo noto come potenziamento dipendente da anticorpi (antibody-dependent enhancement, ADE). Nell'ADE, i virus rivestiti di anticorpi ottengono un ingresso "dalle porte sul retro" tramite i recettori anticorpali sui macrofagi e su altri membri della squadra di pulizia cellulare, neutralizzando le cellule stesse che avrebbero sminuzzato quei virus e l'avrebbero eliminato chimicamente. In alcuni casi, questo processo può innescare una risposta infiammatoria pericolosa.
In effetti, sembra che alcuni agenti patogeni, tra cui i coronavirus, abbiano "trovato un modo per usare l'anticorpo come cavallo di Troia per infettare le cellule che combattono le malattie", dice Iwasaki. Il suo laboratorio sta lavorando per capire i tipi di risposte immunitarie che aiutano le persone a guarire da COVID-19 confrontandole con quelle che contribuiscono alla malattia.
Tramite l'ADE, suggerisce Iwasaki, il virus può avviare una sovrapproduzione di proteine di segnalazione infiammatoria chiamate citochine, portando a "tempeste di citochine" che possono promuovere la sindrome da distress respiratorio acuto e danneggiare il tessuto polmonare. Problemi simili possono anche essere scatenati in pazienti COVID-19 da altre cellule immunitarie chiamate neutrofili.
Gli scienziati non sono ancora sicuri che l'ADE promuova effettivamente le tempeste di citochine o i danni ai tessuti legati alla risposta immunitaria a COVID-19. Stanno “unendo i puntini” sulla base di studi passati su vaccini sperimentali per precedenti focolai di sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e sindrome respiratoria medio-orientale (MERS), in cui alcuni animali immunizzati hanno sviluppato una malattia più grave. Inoltre, precedenti lavori di Iwasaki e altri scienziati suggeriscono che gli agenti patogeni che entrano nelle cellule attraverso la porta sul retro vengono indirizzati verso compartimenti cellulari ricchi di recettori che percepiscono le minacce microbiche e rilasciano molecole connesse alle tempeste citochiniche. "Questo è un fatto ben noto", dice Iwasaki. "Perché anche SARS-CoV-2 non dovrebbe essere riconosciuto in questo modo?"
Alcune ricerche di precedenti epidemie di coronavirus, infatti, corroborano l'idea per cui gli anticorpi possano scatenare una patologia infiammatoria cooptando i macrofagi. In un'analisi effettuata su scimmie, pubblicata l'anno scorso su “JCI Insight”, alcuni ricercatori cinesi hanno dimostrato che gli anticorpi anti-SARS-CoV provenienti dal siero di animali vaccinati erano sufficienti a scatenare danni polmonari in un gruppo di animali non vaccinati. Gli anticorpi trasferiti hanno peggiorato la malattia e sembravano far passare i macrofagi polmonari da uno stato protettivo a uno patogeno, come emerso da un esame dell'attività genetica delle cellule immunitarie.
L'ADE è saltato fuori come un problema sospetto anche per altri vaccini. Alcuni contro dengue e virus respiratorio sinciziale hanno provocato gravi reazioni immunitarie. Gli anticorpi potrebbero essere tra gli iniziatori, ma gli scienziati che si occupano di vaccini dicono che i danni ai tessuti collegati alla risposta immunitaria sono una preoccupazione potenzialmente ancora maggiore. Danni a fegato e polmoni causati da una reazione infiammatoria si sono verificati in animali infettati dal virus della SARS dopo la vaccinazione. Ma l'ADE come meccanismo è stato documentato in esperimenti in laboratorio, quindi il fenomeno "è un po' più teorico", dice Peter Hotez, co-direttore del Texas Children's Hospital Center for Vaccine Development, che si sta basando sul suo lavoro sul vaccino contro la SARS per creare un vaccino per COVID-19.
Anche se è possibile che anticorpi sub-ottimali possano portare a infiammazioni e danni ai tessuti, Hotez afferma che questi problemi potrebbero anche derivare dall'attività aberrante dei linfociti T, che rappresentano un altro tipo di arma contro i virus nell'arsenale del sistema immunitario. Uno studio pubblicato il 14 maggio su “Cell” suggerisce che i linfociti T specifici per SARS-CoV-2, quando funzionano normalmente, possono aiutare le persone a combattere la COVID-19.
Gli scienziati sono ben consapevoli del potenziale pericolo dell'ADE. È "qualcosa che può accadere", dice Paul Henri Lambert, specialista in vaccini dell'Università di Ginevra e consulente della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI). "Ma in questa fase non abbiamo alcuna prova che ciò sia un problema per i vaccini contro SARS-CoV-2".
Moderna, un'azienda di biotecnologie del Massachusetts che di recente ha annunciato i risultati preliminari di un trial clinico in fase iniziale del suo vaccino per COVID-19 a base di RNA, non ha trovato alcun problema di salute grave nei partecipanti allo studio. Un altro vaccino anti-COVID-19 che è stato testato in un triai in fase preliminare in Cina è apparso sicuro e ha prodotto anticorpi neutralizzanti in alcuni dei 108 partecipanti, secondo uno studio pubblicato su “The Lancet”.
Diversi altri vaccini anti-COVID-19 sono stati testati in primati non umani. Uno è stato ottenuto da un virus inattivato da ricercatori in Cina, che hanno riferito il 6 maggio che la dose più alta ha garantito protezione. Il gruppo non ha trovato alcuna prova di potenziamento della malattia in quattro scimmie analizzate sette giorni dopo essere state infettate da SARS-CoV-2. Il 13 maggio è stato pubblicato sul server di pre-stampa bioRxiv un articolo non sottoposto a revisione su un secondo vaccino sviluppato usando la proteina di SARS-CoV-2 responsabile dell'ingresso virale nelle cellule ospiti. Neppure questo ha mostrato segni di potenziamento della malattia. E in uno studio del 20 maggio su macachi immunizzati con un altro tipo di candidato (un vaccino a DNA), gli autori hanno riferito che "non hanno osservato alcun potenziamento della malattia clinica, neppure con i costrutti del vaccino sub-ottimali che non sono riusciti a fornire una protezione".
Stanley Perlman, medico e immunologo virale dell'Università dell'Iowa, ha partecipato ai comitati per il vaccino COVID-19 istituiti sia dagli statunitensi National Institutes of Health sia dall'Organizzazione mondiale della Sanità. Questi comitati hanno discusso a fondo dei possibili rischi posti dall'ADE, afferma. Ma data l'urgenza della pandemia, Perlman aggiunge: "Da una parte ci dicono che dobbiamo ottenere un vaccino 'per ieri'". Altri invece dicono: 'Oh no, dobbiamo stare molto attenti'. Come bilanciare tutto questo? Non possiamo aprire il paese finché non abbiamo un vaccino, finché non abbiamo l'immunità del gregge. Quindi diventa una domanda difficile: qual è la linea d'azione più corretta?"
La vera domanda è se i vaccini per COVID-19 causeranno l'ADE quando saranno somministrati a centinaia di migliaia di persone. Questa preoccupazione è condivisa dai ricercatori che testano se il plasma sanguigno dei pazienti guariti può curare in modo sicuro le persone ricoverate in ospedale con la malattia. L'ADE non è stato finora segnalato in uno studio su 5000 pazienti a cui è stato somministrato il plasma di soggetti convalescenti a livello nazionale, pubblicato il 14 maggio sul server di pre-stampa medRxiv.
Le analisi delle risposte immunitarie in volontari della fase iniziale di un trial clinico e in primati non umani studiati prima di passare alla fase successiva di una determinata indagine dovrebbero essere in grado di identificare i vaccini a potenziale rischio di potenziamento delle difese immunitarie, dice Lambert. Hotez pensa che sarà importante osservare l'ADE e le reazioni infiammatorie dannose quando si immunizzano i partecipanti allo studio nelle aree in cui il virus si sta diffondendo. "Se si cerca di evidenziare questo tipo di problema, è lì che potrebbe emergere", dice. "Negli individui che sono vaccinati e poi esposti al virus, l’intenzione è monitorare la funzionalità epatica e polmonare per assicurarsi che non ci sia un peggioramento".
Oltre ai vaccini, l'ADE potrebbe influire su altri aspetti della risposta immunitaria a SARS-CoV-2. Jorge Caballero, anestesista della Stanford University che organizza dati e supporto ingegneristico per i test di sorveglianza su COVID-19, si chiede se il processo possa essere alla base di altre manifestazioni della malattia, tra cui "geloni" alle dita dei piedi da COVID, difficoltà respiratorie legate alla patologia polmonare e una misteriosa condizione infiammatoria che colpisce alcuni bambini con la malattia. I dati emergenti "suggeriscono che il legame comune – il rasoio di Occam, se si vuole - potrebbe essere un fenomeno poco compreso conosciuto come potenziamento dipendente da anticorpi", dice.
Per chiudere vorrei solo farvi rendere conto dell'ennesima coincidenza, riguardo alla parola ADE. Ade, oHades(ingreco antico:Ἅιδης,Hádēs), è un personaggio dellamitologia greca, figlio diCronoeRea.
Dio dell'Ade, delle ombre e dei morti, è conosciuto anche come Ἀξιόκερσος Axiòkersos poiché coniuge di Persefone, soprannominata infatti Ἀξιόκερσα Axiòkersa, e Καταχθόνιος Katachthònios ossia "Sotterraneo".
Nella mitologia romana la sua figura corrisponde a quella di Plutone.
In seguito, ricevette la sovranità del mondo sotterraneo e degli Inferi, quando l'universo fu diviso con i suoi due fratelli Zeus e Poseidone, che ottennero rispettivamente il regno del cielo e del mare.
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