L’Art. 16 e le clausole segrete, ancora oggi, del Trattato di pace del 1947: la contrarietà di Croce.
Volete proprio sapere perché i nostri politici non faranno mai il volere del popolo,ma seguono direttive dei loro padroni angloamericani sionisti?!? Vi copio un bellissimo post sul trattato di pace del 1947.
Il Trattato di Pace firmato a Parigi nel 1947 è di fatto una Resa senza condizioni. Ha al suo interno non solo un Art. 16 che ci ha impedito di fare Giustizia ma, soprattutto, contiene delle clausole segrete che determinano la nostra finale mancanza di Sovranità e la subordinazione agli interessi Anglo-Americani.
Il Trattato di “Pace” firmato a Parigi alle 11,45 del 10 febbraio 1947 è di fatto una Resa senza condizioni. Ha al suo interno non solo un Art. 16 che ci ha impedito di fare Giustizia ma, soprattutto, contiene delle clausole segrete che determinano la nostra finale mancanza di Sovranità e la subordinazione agli interessi Anglo-Americani.
Ancora oggi, non ci è dato sapere di più su tali clausole in quanto ancora segrete, infami e vergognose clausole nascoste da essere a tutt’oggi completamente inconfessabili, perché se venissero rese note genererebbero il disprezzo e l’odio di tutte le persone oneste del mondo, facendo rivoltare le viscere di tutte le persone corrette e rispettabili: bisogna assolutamente conoscere tali clausole ed, eventualmente, andare ad una Revisione di quel Trattato – chiamato TP47 – che, come giustamente lo ha definito Croce, in realtà non fu altro che un Dettato di Pace.
L’Assemblea costituente italiana votò invece a favore della sua ratifica il 31 luglio 1947, e autorizzò il Governo della Repubblica a ratificarlo con legge del 2 agosto 1947; il Capo Provvisorio dello Stato gli diede piena ed intera attuazione con decreto legislativo del 28 novembre 1947, recependolo nell’ordinamento giuridico italiano con effetto retroattivo al 16 settembre 1947.
Io non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale.
Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta ‹‹tutti››, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente.
Sennonché il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano, coi vincitori, gli altri popoli, anche quelli del Continente nero.
E qui mi duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte intesi unicamente alla vittoria, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o conducente alla vittoria. Chi sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica, o lo sa troppo bene, e cela l’utile, ancorché egoistico, del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra. Giulio Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico Vercingetorige, ma, esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare nel carcere. Parimenti si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano, se non avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle loro colpe e pretendere che le riconoscano e promettano di emendarsi: che è tale pretesa che neppure Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni, che non hanno segreti per lui, dei singoli individui. Un’infrazione della morale qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si piuttosto dei vincitori, non dei giudicati, ma degli illegittimi giudici.
Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo aspetto di dettato internazionale, che dovrebbe ristabilire la collaborazione tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il rinnovarsi delle guerre.
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