Scritto da Stefano Marcheselli
Non è possibile possedere un uomo. Non è più possibile farlo, globalmente parlando, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Il criterio universalmente riconosciuto di dignità umana è criterio applicabile a qualunque rapporto lavorativo, in qualunque parte del mondo.
In Italia, la schiavitù è punita dal codice penale dagli artt. 600 e seguenti.
“Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi, è punito con la reclusione da otto a venti anni”.
Art. 600, c.1, cod.pen.
Il pensiero che una persona possa essere privata della propria libertà, sfruttata per un guadagno da parte di un altro essere umano, è qualcosa che va oltre l’illegalità dei fatti: è moralmente abominevole. Se ci soffermiamo a riflettere, non possiamo far altro che provare vergogna per la razza umana.
Ma la schiavitù non è mai stata davvero abolita, ha solo cambiato forma, si è evoluta; e, come ogni manifestazione di cattiveria umana, si è affinata.
Ad oggi, i Paesi occidentali che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati dei Paesi dell’Asia e dell’Africa, depredano questi stessi posti di materie prime e sfruttano la loro gente per la loro produzione.
La schiavitù è un fenomeno tipico delle parti del mondo che si trovano in condizione di grande povertà economica, ma con grande abbondanza di capitale umano e materiale. Inoltre, inutile negarlo, la legge è meno restrittiva nella sua applicazione, consentendo di operare più o meno liberamente all’interno delle proprietà.
Non è un caso se le più grandi multinazionali delocalizzano le prime fasi della produzione in Africa e Asia, adottando le pratiche in uso dai produttori locali in merito allo sfruttamento delle persone e saccheggiando materie prime, al fine di ottenere il massimo guadagno e rendimento produttivo, a costo zero per i loro bilanci economici. Il costo lo pagano, con la vita, centinaia di adulti e bambini in tutto il mondo, costretti a lavorare in condizioni disumane per soddisfare ogni bisogno consumistico dei Paesi industrializzati.
Il problema del lavoro e dello sfruttamento della mano d’opera nel mondo è un problema che diventa ancor più preoccupante quando si pone l’accento sulla gravissima problematica che vede i bambini, anche molto piccoli, come protagonisti. Ce lo dice il gran numero di bambini e di adolescenti che intrecciano i tappeti indiani e pakistani, i raccoglitori di canna da zucchero in Brasile; quelli di tabacco nel Kazakistan; i baby cercatori d’oro delle miniere del Senegal, dove lavorano solo bambini–schiavi.
Si stima che nelle zone rurali della Costa d’Avorio, il maggior produttore al mondo di cacao, lavorano 4 bambini su 5; ogni anno dalle fabbriche del Pakistan, della Cina e dell’India escono 70 milioni di palloni di cuoio cuciti dalle piccole e agili dita dei bambini, impiegati per ore e ore in cambio di pochi spiccioli.
Tra le grandi multinazionali coinvolte nello sfruttamento della mano d’opera minorile, possiamo menzionare la Coca Cola, il colosso americano, o la Apple, la casa madre degli iPod, iPad e iPhone, nelle cui fabbriche dislocate in Cina sono stati trovati nel 2010 ben 91 bambini lavoratori.
Oppure della Mc Donald’s, della Nike, che produce articoli sportivi, o ancora della Timberland, la celebre marca di calzature americane: da un articolo apparso su Repubblica il 19/05/2005, a firma di Federico Rampini, che è stato per anni corrispondente di Repubblica da Pechino, apprendiamo che per confezionare un paio di scarpe Timberland, vendute nei nostri negozi a 150 euro, nella città di Zhongshan, in Cina, un minore di 14 anni percepisce un salario di 45 centesimi di euro. Il lavoro è di 16 ore al giorno, il suo letto è nella fabbrica, non ha assicurazione né ferie.
Questa realtà coinvolge in primo luogo i grandi produttori e distributori della tecnologia e dell’industria tessile: sono i prodotti di lusso, quelli più costosi, che fondano il loro impero su giornate lavorative che durano dalle 12 alle 16 ore di adulti e bambini che vengono pagati pochi centesimi all’ora e dormono dentro le fabbriche.
Le multinazionali in genere appaltano il lavoro a ditte locali, le quali a loro volta lo subappaltano a ditte più piccole. In questo "giro" si annida il lavoro dei bambini, difficilissimo da scovare, soprattutto perché, purtroppo, spesso è tollerato, se non addirittura legale. Ad esempio, in Indonesia il lavoro minorile è legalizzato (ma solo per 4 ore al giorno) e le piccole tute blu dell'industria manifatturiera sono almeno 300.000. Per salari bassissimi bambini e bambine lavoratori di 10-12 anni, assunti al posto dei genitori, vivono lontano dalle famiglie, poverissime e rurali.
In Asia, il lavoro minorile rappresenta un vero e proprio modello produttivo. In Africa, lavora un bambino su tre.
Quando acquistiamo un capo in una boutique o in un qualsiasi altro negozio, il prezzo che ci viene proposto ha una storia lontana, è un insieme di percentuali e numeri che muovono il pianeta intero; ecco la composizione tipica del prezzo di una t-shirt prodotta in Asia e venduta in Europa:
- 3% costo della manodopera;
- 5% dazi e trasporti;
- 6% costi generali di produzione;
- 11% costo materiali;
- 15% costi e profitti del marchio;
- 60% tasse, costi e profitti del distributore.
In quel misero 3% è rinchiuso il valore che a noi interessa. Il salario, così come previsto dalle convenzioni tra i Paesi di tutto il mondo, dovrebbe essere adeguato alla vita, dignitoso e dare la possibilità di mangiare, avere un alloggio e provvedere ai bisogni primari di ogni essere umano.
Ma questo non avviene in ogni parte del mondo e, spesso, quello che per noi è un lusso quasi indispensabile per qualcun altro è una vita misera.
Il monito è quindi uno: non è tutto oro quello che luccica. Ciò che nel mondo occidentale riveste un’importanza quasi morbosa, rappresentando uno status symbol per milioni di persone, è fatto del sangue e della libertà di gente sfruttata quasi fino allo schiavismo.
Fonti:
ilventunesimosecolo.blogspot.com
Www.humaneuropecapital.com/le.multinazionali.e.lo.sfruttamento.della.manodopera.nel.terzo.mondo.
La Nestlé, una delle multinazionali firmatarie, spicca negativamente. Nel 2005, due ONG (International Labor Rights Fund e Global Exchange) denunciarono Nestlé di sfruttamento del lavoro minorile e manodopera ridotta in schiavitù.
Il report delle ONG aveva come focus, in particolare, la denuncia dello sfruttamento di minori provenienti dal Mali, poi trasferiti in Costa d’Avorio per lavorare gratuitamente e in condizioni disastrose per la salute psico-fisica nelle piantagioni di cacao. La Nestlé è accusata anche di sfruttamento minorile in Thailandia.
Non solo la multinazionale svizzera: anche Apple, Tesla, Alphabet (Google), Dell e Microsoft sono state accusate, il 12 dicembre 2019, tramite azione legale intentata dall’International Right Advocates (IRA) presso la Corte Federale del Distretto di Columbia negli Stati Uniti, di aver ottenuto considerevoli vantaggi dallo sfruttamento minorile, e di essere responsabili della morte di numerosi bambini e ragazzi impiegati nell’estrazione di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo.
E ancora (l’elenco potrebbe essere piuttosto lungo, nell’articolo sono citate solo alcune multinazionali): nel 2010 la multinazionale del tabacco Philip Morris ammise l’utilizzo della manodopera minorile nella raccolta del tabacco. Furono impiegati 72 bambini dell’età di 10 anni e, in più, l’azienda ha costretto lavoratori migranti ad operare in condizioni di schiavitù, dopo aver sottratto loro i documenti.
Cosa dire di Victoria’s Secret, le cui dichiarazioni di provenienza “fair trade” del cotone lasciano l’amaro in bocca. La dicitura dovrebbe assicurare la garanzia di assenza di sfruttamento lavorativo, ma ciò non è risultato valido per l’azienda.
Nel 2007, il marchio statunitense lanciò la linea Burkina fashion, il cui obiettivo era quello di produrre una linea equa e solidale con tessuti esclusivamente africani. Ma il giornalista Cam Simpson, esponente della multinazionale operante nel settore dei mass media Bloomberg, ha testimoniato con un reportage risalente al dicembre 2011 la storia, in particolare, di Clarissa Kambire, tredicenne africana.
Il reportage racconta la giornata tipica di Clarissa, ripetutamente picchiata per svolgere un lavoro duro e doloroso. Come Clarissa, molti altri bambini e ragazzi venivano regolarmente sfruttati e picchiati, in Burkina Faso, al fine di produrre la sexy lingerie americana.
Questi sono solo esempi. Moltissimi sono i colossi coinvolti in scandali e in ambiguità: Coca Cola, Nike, Benetton, Reebok, Puma, Timberland, Mc Donald’s…
Possedere un uomo non è più possibile da tempi relativamente recenti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite lo affermò perentoriamente con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il 10 dicembre 1948. Tuttavia, questo non sembra essere valido in tutti i contesti, anzi.
La domanda è sempre la stessa: cosa possiamo fare noi consumatori? Anzitutto, documentarci, e i media forniscono un lavoro prezioso a riguardo. Poi, ricordarci che il prodotto che acquistiamo non è solo un oggetto. Ha una storia, un percorso, spesso fatto di sangue, sudore e lacrime. Perfino di bambini.
Aurora Scarnera
Vi consiglio vivamente di guardare questo importantissimo video inchiesta dal canale youtube Daniele Lapenna e il blog "Il Ventunesimo secolo" 👇
Questo purtroppo è il mondo che stiamo creando,aiutando alle potenti multinazionali nel loro sfruttamento soprattutto di minori nei paesi poveri. Tutto questo grazie al nostro consumismo,l'avere avere avere e consumare consumare, buttare,ricomprare....
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